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Namur, Belgium
Gattofila, razionalmente disordinata, ossessivo-compulsiva part-time.

lunedì 22 ottobre 2018

Gesù nel deserto resistette. E io?

È finita.
I quaranta giorni sono giunti al termine, è il caso di tirare un po' le somme di questo Social Detox.
Innanzitutto, sto scrivendo: apprendo quindi sulla mia pelle che sopravvivere mi è possibile.



Oh quale gaudio! Oh quale sollievo all'idea che questo temutissimo Kraken digitale sia affrontabile! Già solo per questo ritengo sia valsa la pena di aver intrapreso l'esperimento.
In secondo luogo: non sono arrivata alla fine essendomi strappata i capelli, scorticata le braccia in preda al prurito o senza più le unghie. Ci sono arrivata con tranquillo agio. All'inizio avevo cominciato a scrivere dei piccoli appunti ogni volta che notavo qualcosa di particolare:

Giorno 1
"Ho addirittura anticipato l'attuazione rispetto alla deadline stabilita. Momento di panico subito prima di cliccare su 'disattiva': sarà davvero una misura solo temporanea? G., per non rischiare, mi propone la soluzione alternativa di cambiare lui la mia password. Eh no, cavolo, deve essere una cosa che faccio da me. Ricontrollo la procedura (mi sento ridicola). Nel frattempo Facebook cerca in tutti i modi di convincermi a non farlo, puntando anche sul senso di colpa ('a questi amici mancherai!') o proponendo soluzioni più blande.
Scopro che per riattivare gli account del gruppo Facebook, basta semplicemente riaccedervi: mi sembra una misura un po' debole. Scopro anche che Twitter, dopo 30 giorni di sospensione, elimina definitivamente l'account. Promemoria sul Calendar, servirà un breve accesso anticipato.

Sera, G. è ri-partito. Incredibilmente, mi sembra di avere moltissimo tempo in più a disposizione tra le mani, senza social. Quasi troppo."

Giorno 2
"Le mie dita cercano automaticamente di accedere alle applicazioni sul telefono (disinstallate): quante migliaia di volte avrò compiuto lo stesso gesto, per farglielo fare quando sono sovrappensiero?"

Giorno 3
"Quando sono al computer, il mouse finisce spesso a cercare il link diretto a Facebook (cancellato).
N.B. dormo meglio."

Giorno 4
"Per lavoro devo contattare un ex dottorando. Non ho il suo nuovo indirizzo e-mail, ma siamo amici su Facebook. Oh-oh.
Meno male che ho lasciato l'accesso a Messenger."

Giorno 5
"È tornato il controllo sull'utilizzo dei dati. Addio."
Questo ha bisogno di qualche spiegazione: essendo in una residenza dell'Università, la rete internet è, sorpresa!, gestita dall'Università. C'è un limite di consumo dati, fissato a 25 Giga ogni 8 giorni: superato il limite, l'accesso ad internet è ristretto a siti riguardanti l'ateneo. Ad un certo punto, circa un anno e mezzo fa, un po' per caso avevo by-passato questo problema, ma devono aver aggiornato il sistema e lo stesso espediente non funziona più.
Ora, senza più i social avevo intenzione di ripartire il tempo guadagnato tra letture e recupero di serie su Netflix o di video interessanti su Youtube, ma i 25 Giga scorrono via come acqua. Quindi niente, libri a go-go!*

E poi non ho più annotato nulla: dopo i primi giorni di assestamento, non c'è stato più bisogno.

- Si, ok, ma quindi? In sostanza?

In sostanza, i quaranta giorni sono arrivati e passati, e io ancora non ho riattivato gli account. Sono stata talmente tanto bene senza, che ho quasi paura a rientrare nel circolo vizioso.
Da un punto di vista pratico, l'assenza in particolare di Facebook si è fatta sentire: ci sono stati svariati momenti in cui segnarsi un evento (e ricordarsene!) sarebbe stato molto più facile semplicemente cliccando su "Partecipa". Sono stati numerosi i "ah già, volevo farti vedere questa cosa/giusto, non puoi saperlo/hai visto cosa è successo?". Ma è stato così problematico? Non particolarmente. Forse vale la pena doversi scrivere a mano qualche cosa in più o dover dipendere da altri per avere determinate informazioni, se la ricompensa è un po' di pace interiore.
Psicologicamente parlando, che pacchia!, che rilassatezza! Avrò anche perso degli aggiornamenti sulla vita dei miei contatti, ma quelle due o tre cose importanti che sono successe le ho vissute (da lontano) lo stesso, e con molta più tranquillità. Che poi, quanti di questi aggiornamenti sono davvero importanti? E lo dico anche pensando ai miei, eh! Quante di queste cose vale davvero la pena sapere? Durante questo periodo mi sono chiesta se ci prenderemmo la briga di raccontare a voce in una conversazione tutto ciò che pubblichiamo in giro sulle varie piattaforme, e la risposta è che probabilmente no. Potrebbe essere un buon criterio, un po' per tutti, per discernere ciò che è valido o meno: non che sia una condizione sufficiente, non è obbligatorio condividere cose della propria vita. Ma allora che senso hanno i social?
Mi sto interrogando da un po' sulla questione, e ancora non ho trovato una risposta precisa. Motivo per il quale credo che continuerò a tenere gli account in sospeso sine die: anche qua, che cosa psicologicamente bizzarra. Perché non dovrei eliminarli definitivamente? Immagino ci sia una componente legata al fatto di avere delle sorte di diari degli ultimi dieci anni facilmente accessibili e navigabili, e che sarebbe forse un peccato perdere del tutto. Allo stesso tempo, molte delle cose davvero importanti che sono successe nella mia vita, e come io ho reagito e quello che io ho provato, non sono lì. Sono state troppo intime, le ho protette. E non è che le abbia scordate.
Varrà la pena continuare a rifletterci, immagino.


* Durante la stesura di questo post, abbiamo ricevuto l'inaspettata e fantastica notizia per cui il limite passerà da 25 a 50 giga durante questa settimana. La giuoia, non potete capire la giuoia!

giovedì 6 settembre 2018

Social Network Detox

Ho deciso di disattivare (per quaranta giorni, per ora) i miei account social.

Bam!, così!, diretta e senza fronzoli.
Però adesso argomento un attimo. Forse per più di un attimo.

Su una delle schermate del telefono ho la cartella "Social".
Anche sulla barra dei preferiti di Google Chrome ho una cartella "Social".
Laddove c'è una cartella, c'è una raccolta, di plurime cose. Plurale. Facebook, Twitter, Instagram, Youtube, Goodreads (il quale è tecnicamente un social, ma non lo considero tale). Pinterest no, ho solo il pulsantino sul browser per salvare foto, articoli, ispirazioni che trovo in giro su internet.

Mi sono iscritta a Facebook quando ha cominciato ad essere interessante anche in Italia: 2008, o giù di lì. L'uso inappropriato che ne facevo mi è ricordato costantemente dalla funzione "Ricordi", con buona pace della creanza (allora) e della dignità (ora come allora). Chissà perché sembrava plausibile che potessero interessare al mondo le stron minuzie di cui scrivevo.
"Ma stai scrivendo su un blog! Non è forse la stessa cosa?"
Mi illudo che la maggior completezza, la più alta qualità e il più elevato sviluppo dei concetti abbiano un effetto diverso da "pensa che oggi non le va proprio di studiare. Uff!". Lo spero, se non altro. Così non fosse, fatemelo sapere perché è importante saper rivalutare la propria visione del mondo.

Ma dicevamo.

Credo che chiunque abbia vissuto diverse fasi nella gestione dei propri social network. So sicuramente di averla avuto io. All'inizio, ogni avvenimento diverso dal "sto respirando" andava opportunamente documentato, meglio se con supporto fotografico annesso: c'era tutto il rituale, fatto di tag degli amici e infiniti commenti (generalmente tra sole due o tre persone). Sono sicura che fosse motivato da un reale piacere di condividere delle esperienze con chi le aveva vissute insieme a me, di lasciare una traccia. Anche perché diciamocelo, non è che avessimo proprio una quantità spropositata di contatti, all'inizio.
Poi, organicamente, la cosa è andata un po' scemando ("Ma era scema pure prima!" ok, scusate, faccio spesso di queste battute a mio unico beneficio). È subentrata invece la fase in cui cercavo di condividere comunque un fatto, sempre poco rilevante per la sorte del mondo, ma quantomeno facendo uno sforzo narrativo e (spero di nuovo) almeno simpatico, se non addirittura comico. E mica dico di aver inventato l'acqua calda, è la tendenza che si apprezzava in più o meno tutti i post che mi capitava di leggere in bacheca. Un po' di maturità in più e la necessità di avere una buona "base" per raccontare un aneddoto in una certa maniera hanno fatto sì che scrivessi di meno.
E poi sempre di meno. Il mio consumo attivo di Facebook è esponenziale più alto di quello di tanta gente che conosco, ma si è ridotto comunque drasticamente nell'ultimo periodo.
Il consumo passivo invece è sempre molto intenso, di qualunque social si tratti.

Da un po' di tempo però, vivo i social network con un po' di malessere che cova da qualche parte nel profondo; due giorni fa ho visto questo video e ho capito che ho decisamente bisogno di un detox (tanto per usare una parola che va di moda):

Mi sono fatta fare il lavaggio del cervello da questo tizio? No, ma ha toccato delle corde che erano pronte a vibrare, aspettavano solo la stimolazione giusta.
Ho deciso di scriverne per tre motivi principali: condividere un po' di quello che mi passa per la testa (che è poi lo scopo primario di questo blog); per ricordarmi delle mie motivazioni qualora mi sentissi di cedere tra qualche giorno; perché chissà, magari può essere uno spunto di riflessione per qualcun altro. Mi accingo quindi a sviscerare la questione principale: perché?

Il primo e più basico motivo per il quale mi interessa fare questo esperimento è che i social, volenti o nolenti, sono una distrazione e una perdita di tempo. E credo che stiano seriamente compromettendo la mia abilità di concentrarmi a lungo su una sola attività, sia essa di lavoro o di piacere: questa prospettiva mi inquieta molto, soprattutto perché ne vedo praticamente gli effetti, e non sono a mio agio. Oltretutto, Facebook & Co. sono il motivo principale per cui spesso e volentieri alle undici sono a letto con la prospettiva di otto ore abbondanti di sonno e poi mi ritrovo quasi all'una di notte con gli occhi stanchi a maledirmi (per non parlare della mattina dopo).
La seconda ragione è che non mi piace come la maggior parte dei miei contatti li usa, questi sociali: mi innervosisce per contenuti, per modalità, per filosofia. Se un aggeggio che dovrebbe, tra le altre cose, farmi passare del tempo spensierato è in realtà fonte di nervosismo, sta mancando il suo scopo. Potrei, certamente, silenziare molti di questi contatti, ma poi mi ritroverei con feed vuoti: oltretutto, l'obiettivo primario dei social dovrebbe essere di mantenere i rapporti con la gente, quindi mi sembrerebbe un po' un controsenso.
Il terzo motivo principale è che non mi piace come io stessa ho cominciato a percepire questi social. Mi sono ritrovata a pensare, a volte "Mh, questo post è ben scritto eppure ha avuto pochi like, magari la prossima volta invece di pubblicarlo appena mi viene in mente aspetto l'ora di pranzo, ché c'è più engagement". Oh, ma davvero? Sinceramente, mi preoccupa molto essere arrivata a pensare in questo modo (solo a volte, devo dire). Ma da quando mi importa dei like? Ma seriamente? No no no, urge riassestare la forma mentis, davvero.
Il quarto è che ho cominciato ad interessarmi troppo della vita di perfetti sconosciuti: blogger, influencer, imprenditori. C'è da dire che credo di seguire comunque gente interessante e che offre sempre spunti di riflessioni, seppur variegati: molti parlano di libri (da cui la mia lista infinita di libri da leggere), di mostre ed eventi che incontrano il mio gusto, altri di creme e trucchi da un punto di vista scientifico e razionale, in generale quasi tutti sanno dare un twist inaspettato e accattivante anche quando parlano di sciocchezze. Per quanto possano essere interessanti, però, non valgono il mio tempo. Sicuramente, non valgono il tempo e le energie mentali che gli sto dedicando in questo momento. Non valgono il "oggi non ho fatto in tempo a guardare le stories di Tizia [le stories su Instagram restano disponibili solo per 24 ore, nda], chissà com'è andare a finire quella cosa". Ritengo sia già molto triste essere arrivata a questo punto, ecco.

L'ultimo punto merita qualche parola in più: la FoMO, o Fear of Missing Out. Agevolo la definizione che ne dà Wikipedia:
La FoMO (acronimo per l'espressione inglese Fear of missing out, letteralmente "paura di essere tagliati fuori") è una forma di ansia sociale, caratterizzata da un desiderio di rimanere continuamente in contatto con ciò che fanno gli altri e la paura di essere esclusi da un evento o contesto sociale. La FoMO può portare a una preoccupazione compulsiva che si possa perdere un'opportunità di interazione sociale.
Eppure, in questi due anni e mezzo in Belgio (e in un po' di anni in più lontana da gente conosciuta a Londra) ho imparato una cosa: i social in questo non aiutano più di tanto. Non tutti sono predisposti alle relazioni a distanza, indipendentemente dal tipo di relazioni di cui si parli: "lontano dagli occhi, lontano dal cuore" non è mitigato da qualche post in più che appare sul feed di altri.
Ho scoperto di avvenimenti belli o tragici accaduti ad amici anche stretti assolutamente per caso, nonostante io sia sempre stata incollata ai social. Poi per carità, quando torno a casa (se e) quando si riesce ad incontrarsi, tutti sempre amici. Ma i social non mi hanno aiutato ad evitare che si diluissero i rapporti. In nessuno dei due sensi di comunicazione. Pubblicare foto di un bel viaggio (per esempio) non stimola riscontri, like a parte, non porta avanti una conversazione. E lo dico anche da parte mia: sono spesso spettatrice passiva della vita degli altri, e allora che senso ha? Oltretutto poi, quando ci si ritrova fisicamente insieme, un'esperienza passata sembra aver perso il diritto di essere raccontata perché "tanto l'ho già pubblicato, già lo sai".
Le persone con cui ho mantenuto un rapporto davvero stretto, quelle a cui chiedo e che mi chiedono "come stai?" non sono quelle più attive sui social. Sono persone con cui facciamo reciprocamente uno sforzo di sentirci nel privato.

Con questo non voglio dire che i social siano il male. Sono un importante strumento, e ci saranno sicuramente degli aspetti negativi, in questo periodo.
Per esempio scopro di tanti eventi che si tengono qui a Namur grazie alle condivisioni su Facebook; sono aggiornata sugli orari di apertura ed eventuali chiusure straordinarie di negozi in cui vado abitualmente perché vedo i post di aggiornamento su Facebook e/o Instagram (e no, non hanno siti internet, e in ogni caso non è che andrei ogni giorno a controllare perché "Chissà se oggi quelli del negozio di alimenti sfusi hanno avuto un imprevisto"); quando organizziamo uscite al cinema, o feste di compleanno, o gite in kayak, si fa ormai sempre su Facebook perché, innegabilmente, è comodo, è pratico, è veloce.
"Ma non potresti semplicemente limitarne l'uso? Controlli quello che ti serve, lasci stare la gente sconosciuta, ignori i contenuti che non ti aggradano?"
Potrei, se fossi una persona equilibrata, con una buona autodisciplina e non curiosa come una scimmia. Ma guess what?

Ho la sensazione di avere un sacco di cose messe alla rinfusa dentro la mia testa, sento il bisogno di fare un po' di chiaro. Quindi ho deciso di disattivare per quaranta giorni i miei account social. Uniche due eccezioni: Youtube, perché ho già fatto una cernita dei contenuti che mi interessano e perché ormai lo uso principalmente per video che offrano degli spunti e non siano semplicemente riempitori di tempo, e Goodreads, perché non lo considero/non lo uso in quanto social.
Perché quaranta giorni? Avevo pensato ad un mese, poi mi sono detta: Gesù è stato quaranta giorni nel deserto a resistere alle tentazioni del Maligno, chi sono io per fare di meno? Si, ho appena paragonato Gesù e il deserto a me e i social. Tu chiamale se vuoi manie di grandezza.

Ovviamente questo non significa che mi sto dando all'eremitaggio: sono sempre raggiungibile sui canali "privati", anche se qualcosa mi dice che il tipo e la quantità di interazioni che avrò non cambierà comunque.
Se normalmente arrivate qui dai miei post condivisi su Facebook, avete due opzioni: iscrivervi al blog e ricevere una mail ogni volta che c'è un aggiornamento (c'è un bel tasto blu "segui" da qualche parte) o salvarvi il blog tra i preferiti e darci un'occhiata ogni tanto. Sempre che in questi quaranta giorni io scriva qualcosa, ben inteso.

mercoledì 4 luglio 2018

Amarcord: Anatroccoli

Qualche settimana fa mentre correvo lungo il fiume sono stata quasi attaccata da alcune famiglie di oche(?). La mia colpa imperdonabile è esser passata troppo vicino agli anatroccoli che attraversavano con estrema lentezza il camminamento, occupandolo del tutto: non avevo molta scelta dunque.
Se l'immagine di me che rasento l'argine del fiume con dei pennuti che mi soffiano contro (si, come i gatti!) vi fa ridere, sappiate che la ragione è dalla vostra perché è davvero una situazione ridicola. Ciò nonostante, vi assicuro che riescono ad essere animali molto inquietanti, e che non è stata una bellissima esperienza.

Ciò detto.
Stamattina mentre correvo lungo il fiume ho rivisto quella che potenzialmente potrebbe essere una di quelle famiglie. Solo che gli anatroccoli, colore delle piume a parte, non sembrano più poi molto anatroccoli. E mi è tornato in mente questo: senza infamia e senza lode, ma celebriamo il pattern ricorrente.

[Originally written: 05/07/12]

Sono stanca, di una stanchezza incredibile
Eppure non riesco a chiudere occhio.

Il più evidente segnale dello scorrere del Tempo è sicuramente l'alternarsi del giorno e della notte, della luce e del buio; eppure è sempre alle stagioni e al loro susseguirsi che è stato affidato il ruolo di segnatempo, giacché da queste, in tempi andati, dipendeva la disponibilità d'acqua, e dunque la probabilità di sopravvivenza.

Stagioni.

Da quant'è che sono qui?
Sembra ieri, sembra passato un secolo.

Assenza di stagioni.
Londra pare essersi scordata dell'estate: la poco convinta primavera ha ceduto il passo direttamente ad un umido simil-autunno, in uno scambio talmente languido da passare inosservato e generare un'unica mezza (?) stagione.

Ho percepito il Tempo trascorso guardando il laghetto del parco dietro casa: non trovavo più i piccoli anatroccoli, ho stentato a capire che erano le giovani anatre di fronte a me.

Sono stanca, ma forse non è la stanchezza di un giorno.
E' la stanchezza di un susseguirsi di stagioni in me che non ho percepito.
E' la stanchezza di un Tempo che non so quant'è.

giovedì 17 maggio 2018

Accadono cose a Namur #5: il bancomat dimenticato

Oggi amo Namur.
È cominciato stamattina, quando correndo in giro* sul lungo fiume prima e per delle stradine più o meno piccole poi, riflettevo su quanto questa città sia a misura d'uomo. Riescono incredibilmente a creare del traffico anche qui (in parte perché continuano a non saper guidare), ma virtualmente non è necessario avere la macchina ed è incredibilmente tranquilla.
L'ho amata a pranzo, quando al ristorante al momento di pagare il conto abbiamo chiesto di poter pagare ognuno separatamente. Eravamo in dodici, contanti misti a pagamenti con la carta. Non hanno battuto ciglio. Non che sia una novità, ma questa scioltezza nei pagamenti è sempre una bella cosa.
Poi è toccato a me pagare, e mi sono accorta di non avere la carta nel portafoglio. Mentre pagavo in contanti che fortunatamente avevo e in abbondanza (cose estremamente rare), ho cercato di fare mente locale su dove fosse la carta.

... contanti che fortunatamente avevo e in abbondanza...

...

... contanti...

Ore 14:40 : la realizzazione.
Ieri ho ritirato dei contanti sulla strada per il corso di francese. E no, qui gli sportelli automatici non ti restituiscono la carta prima dei contanti, come nei Paesi civili. Ci sono stata attenta fino ad ora, ma era inevitabile che prima o poi me la scordassi.


Ore 14:43 : lo sportello automatico. (Si, il ristorante era particolarmente vicino al luogo del misfatto)
Non so perché ci sono andata, chissà cosa pensavo di trovarci. Però almeno confermo di quale banca si tratta (spoiler, non la mia), mi ricordo che c'è una sede a tipo 40 metri.


Ore 14:45 : tentativo sede 1.
La sede l'hanno spostata, trovo un guardiano a cui chiedere consiglio, mi ricorda che la nuova sede si trova in Via Tal dei Tali.



Ore 14:52 : tentativo sede 2.
Sono in Via Tal dei Tali. Due persone sono in coda davanti a me.

No, non è vero. Ma mi faceva troppo ridere l'associazione.

Ore 14:57: tentativo sede 2, il mio turno.
Spiego il mio problema (in francese, e anche decente, se posso dirmelo).
"Noi non possiamo recuperare la carta. È un servizio gestito da terzi, se dovessero trovarla, la manderebbero alla sua banca."



Ore 15:04: sede della mia banca.
Zero persone in attesa. Spiego il problema + tentativo di soluzione fallito (sempre in francese), l'impiegata mi guarda e mi propone di sostituire la carta, che arriverà tra una settimana. Comincio a pensare a come posso sbrogliarmi per il weekend negli Uk, sto per chiederle qualcosa e mi fa: "vuole una carta temporanea? La inserisce in uno sportello, segue le istruzioni e imposta il codice. Funziona da subito."



Ore 15:08: carta in mano.
Esco dalla banca con la mia carta temporanea, dopo mezzora dalla realizzazione del problema, stupita dal mio francese, dall'efficienza dei servizi e del centro, che è talmente a portata di piede da permettermi di risolvere il tutto in un battito di ciglia.
A Roma starei ancora cercando parcheggio per la prima tappa, sospetto.



Cosa abbiamo imparato?
A non dimenticarsi mai più la carta dopo aver prelevato.
A non denigrare troppo il mio francese, che sarà lungi dall'esser perfetto ma serve al suo scopo.
Ad apprezzare questa città, che anche lei non sarà perfetta e sarà pure troppo lontana da tante cose e persone, ma in giorni tipo oggi si fa amare molto.



* ah già, ho cominciato a correre. Io. La mattina. Sveglia alle sei e mezza e tutto il resto. Chi l'avrebbe mai detto.

mercoledì 16 maggio 2018

I Belgi fanno cose: ...

[Vale il solito disclaimer che introduceva il primo post della serie. In particolare, ci terrei a sottolineare che questi comportamenti non sono distribuiti in lungo e in largo e in alto e in basso in tutti gli ambienti. Agli eventi organizzati dall'Università per i membri del personale, per esempio, ho visto spesso gente alticcia, ma con un contegno. Le persone che normalmente frequento non sono così estreme. Questi atteggiamenti sono però evidenti anche semplicemente camminando per strada la sera, senza necessariamente dover andare nei peggiori bar di Caracas.]

Quando ci si immerge in una cultura completamente nuova ci si ritrova inevitabilmente a confrontarsi con abitudini diverse da quelle a cui si è... abituati. Col passare del tempo, alcune di queste le facciamo nostre (sia indefinitamente sia temporaneamente), con altre si convive ignorandosi amabilmente.

E poi ci sono quelle.
Quelle che non importa da quanto tempo ci si è trasferiti o per quanto ci si è stati a contatto, non si riuscirà mai a scenderci a patti. Ad accettarle. A pensare che possano essere parte di una quotidianità civile. Agevolo esempi.

Lasciate che mi prenda un minuto per affermare un paio di cose ovvie, che però in questo caso è interessante notare perché causa primaria delle prime due istanze: i Belgi bevono un botto di birra, le birre belghe sono tendenzialmente molto alcoliche, pare che qui perdano spesso il senso della misura. Una volta che siamo tutti d'accordo su questi tre semplici postulati, possiamo proseguire.

I Belgi pisciano. Molto. Ma soprattutto, ovunque.
Lasciate che io utilizzi, tra tutto il carnet di verbi della lingua italiana che indicano l'atto, proprio il verbo pisciare, per quanto poco elegante: comunica secondo me perfettamente l'attitudine del Belga medio alla mollezza del fare il minimo indispensabile e lasciare alla gravità e ai muscoli intorno alla vescica di fare il resto. Giusto slacciare la zip dei pantaloni e tirare fuori il pene*, ma solo perché sarebbe scomodo andare in giro con i pantaloni bagnati.
Chi scrive è nota per andare in bagno tra le dieci e le venti volte al giorno (ché bere almeno due litri d'acqua fa benissimo e lo sappiamo, ma poi nessuno parla dell'inevitabile scocciatura conseguente); d'altronde, si sa che la birra ha un effetto diuretico potente. Quindi capisco perfettamente le necessità dettate dalla vescica, quanto sia fastidioso dovere andare spesso al bagno e quanto tempo a volte si perda nell'aspettare il proprio turno.

Ma qui non hanno ritegno.

Qualche settimana fa tornavo dal corso di francese facendo la solita strada, che prevede il passaggio davanti ad un pub e una svolta ad angolo retto (lo stesso dello stendino, ricordate?) qualche metro più in là. Proprio all'angolo c'era un ragazzo che stava parlando con qualcuno che non vedevo perché coperto dall'edificio che mi apprestavo a circumnavigare. Svolto l'angolo e scopro che il misterioso interlocutore sta tranquillamente pisciando, tra l'altro proprio di fronte all'amico suo, neanche attaccato al muro, ma in mezzo al marciapiede. Pacioso, mentre chiaccherava. E se pensate che si sia scomposto nel vedersi esposto di fronte ad una giovin donzella, mi dispiace deludere la vostra ingenuità: "Oh, Madame..." è stata la massima reazione, non ha nemmeno accennato a coprirsi.
Per loro è talmente normale farla ovunque che se sono fuori da un locale a bere una birra, preferiscono attraversare la strada e "nascondersi" (?) dietro l'angolo piuttosto che entrare e andare ad un bagno come si deve.

* Il riferimento all'anatomia maschile segue una semplice osservazione statistica: è noto come per gli uomini sia più facile pisciare "in giro" che per le donne, dunque il campione è al 99% maschile. Non mancano certo eccezioni femminili, che risultano anzi molto più appariscenti nelle loro manifestazioni. Volendo fare però un discorso generale, lasciate che punti il dito verso Marte.

I Belgi vomitano. Molto. Ma soprattutto, ovunque.
La cosa di cui mi stupisco ancora è come siano tendenzialmente predisposti a superare qualunque loro limite fisico, più volte a settimana. Quando i Belgi bevono, bevono davvero. E se a forza di allenamento hanno delle soglie di resistenza più alte, non sono comunque sovrumani.
Quindi si sentono male.
Ma il disgusto e la preoccupazione che di solito tale situazione genererebbe in condizioni "normali", qui sono diluiti sia dall'alcol che tendenzialmente circola nella maggior parte delle persone al contorno, sia dalla frequenza con cui succede. E poi, quasi tutti si sono trovati nella stessa situazione, come potrebbero loro giudicare? Nel caso di posti al chiuso, spesso hanno quantomeno la decenza di vomitare all'esterno: si trascinano con una certa urgenza nel primo posto "accettabile", che spesso è subito fuori dalla porta, e vomitano lì, per terra. Non potrebbero andare al bagno? In teoria certamente, ma non lo usano nemmeno per fare pipì...
Ovviamente, più sono giovani, peggio è. La "grandiosità" di una festa universitaria si misura da quante chiazze si trovano sui marciapiedi la mattina dopo: vivendo a due minuti a piedi dai principali punti di ritrovo dell'Università, solitamente preferisco camminare in mezzo alla strada.*
Qualche tempo fa, camminavo sul marciapiede dalla parte opposta della strada rispetto ad un pub (ce ne sono molti in giro, è facile che le storie siano sempre in un intorno di un pub). Mentre ero in procinto di passarci di fronte, ne esce un ragazzo con la faccia imbronciata, che attraversa la strada con un passo sicuro, quasi marziale: ci siamo praticamente incrociati sul marciapiede. E io ricordo come se fosse successo ora di aver sentito sulla schiena, tanto eravamo vicini, il movimento dell'aria generato dal suo improvviso chinarsi in avanti per vomitare. Dopo attenta e schifata ispezione, ho constatato che fortunatamente non mi aveva vomitato addosso, ma non so come sia stato possibile.

* C'è da dire che, come sempre, è raro che restino per più di qualche ora, sono molto efficienti nel mantenere la città pulita.

Non ci sarà delinquenza, ma andare in giro per le strade di Namur è comunque pericoloso, a quanto pare.

giovedì 8 marzo 2018

Le festa che non è.

Premessa: post ad alto contenuto di parole volgari. Io vi ho avvisato.

Gli auguri per l'8 marzo non li ho mai davvero capiti. Forse è che nel tempo è diventata la "Festa della donna" (che, non vorrei sbagliare, ma mi sembra una cosa solo tutta italiana), mentre la sua denominazione originale e mantenuta praticamente ovunque è "Giornata internazionale della Donna". Ed è una giornata di rivendicazione, di denuncia, di riflessione.
Quindi perché gli auguri? Capisco però che facciano un po' parte dello status quo, io non è che ci sono arrivata dieci anni fa al fatto che non ha molto senso. Quindi rispondo "grazie" e sono contenta del pensiero ricevuto. Quindi se siete in questa categoria, spero non vi mortifichiate, non è quello l'intento del post.

Però.

Però, che siate donne o uomini, NON fatemi gli auguri prima di esservi assicurati di non fare una delle seguenti cose (la lista non è esaustiva).
  • Insultate qualcuna dandole della "puttana" (o sinonimi): la vita sessuale di una donna non dovrebbe essere di alcuna rilevanza ed essere esposta a giudizi, che sia in contesto o meno. Non siamo santuari inviolabili, non ci deterioriamo con l'uso, non dobbiamo incarnare l'ideale di una futura madre consacrata. Io non ho mai sentito un uomo insultato per la frequenza o la promiscuità della sua vita sessuale. Se un uomo tradisce il/la partner gli si dice che è uno stronzo. Se lo fa una donna, "stronza" non è abbastanza, non rende l'idea: ha usato la vagina, dunque è una puttana.
  • Pensate che una donna violentata abbia comunque un minimo di colpa o se la sia cercata. Il discorso globale sarebbe lungo e complicato, quindi limitiamoci a ciò che conosciamo meglio: il mondo "occidentale" e "civilizzato". Ecco, nella nostra realtà, non ci dovrebbe essere nessun "ma". E quanto questo "ma" sia intrinseco nella nostra cultura secondo me si capisce guardando queste vignette che esemplificano il consenso in un contesto non sessuale: è tutto piuttosto ragionevole. Ma per esempio per me riuscire a trasporre la ragionevolezza di un paio di queste cose in ambito sessuale è stato più complicato, la prima volta che l'ho vista: ed è incredibile, perché in fondo parliamo del nostro corpo, che dovrebbe essere una delle nostre cose più preziose. Se state pensando "eh ma l'uomo non lo puoi provocare, poi non riesce a controllarsi", trovai geniale e molto triste questo tweet:

    Io lo capisco che sia un pensiero automatico, ma dovremmo smetterla di inconsapevolmente trovare attenuanti animalesche che scarichino parte della colpa sulla vittima.
  • Partite dal presupposto che una donna debba volere dei figli. E soprattutto (quanto mi fa incaz innervosire questa cosa) al sentire "non sono sicura di volerne/non ne voglio" rispondete "eh, ma lo dici adesso, vedrai poi che più in là ti verrà voglia!". Siamo libere di decidere di procreare o meno, e sorpresa!, non riguarda che noi. Proclamare che la nostra volontà sia poi soggetta incontrovertibilmente al famoso orologio biologico è un'offesa bella e buona alla nostra intelligenza. Ah, e una può chiaramente cambiare: questo non vi dà il diritto di asserirlo come certezza.
  • Colpevolizzate una madre perché non si annulla per i propri figli. Vi aspettate da lei un ruolo diverso (al di là di ciò che è fisicamente impossibile per un padre fornire, e che normalmente si esaurisce nel primo/secondo anno di vita) da quello del padre. Se un padre parte per lavoro per due settimane è un po' triste, ma in fondo è per lavoro; se una madre parte per due settimane, sta abbandonando i propri figli, quell'egoista.
  • Usate espressioni come "donne con le palle". Se state alzando gli occhi al cielo, sappiate che il cambiamento cognitivo passa anche dal linguaggio. Una donna per essere forte, indipendente e raggiungere i propri obiettivi non ha bisogno di attributi maschili. E non sto dicendo che tutte le donne sono forti, indipendenti e raggiungono i loro obiettivi, il che mi porta al punto successivo.
  • "Le donne sono...", "le donne fanno...". Con calma. Se è vero che esistono dei caratteri comuni, è anche vero che fare di tutta l'erba (circa metà della popolazione mondiale, viaggiamo sui tre miliardi e mezzo, suppergiù) un fascio è assurdo. Io, come donna, sono molto diversa dalla donna tipo, così come lo sono tante delle donne che conosco. E allo stesso tempo vedo in me degli stereotipi femminili, ma pensare di descrivermi con "le donne" è fuori dal mondo. A tal proposito, c'è da leggere questo post della sempre brava A.
  • Pensate che non ci sia un problema di genere, che il femminismo non serva più, che quando si cerca di richiamare l'attenzione sulla disparità e il maschilismo che sono presenti ancora ovunque, si stia in realtà esagerando. Per me è ancora più grave quando a pensarlo sono delle donne: l'imprinting della società è talmente potente a volte da farsi sottomettere propria sponte. 
La lista sarebbe, chiaramente, appena cominciata. Questi mi sembrano però i punti su cui è più facile scivolare, quelli che si ripropongono quotidianamente, quelli che possono svelare che anche se idealmente siamo tutti per la parità, nei fatti poi non è sempre detto sia così. Più in generale, un buon mantra (a volte complicato da seguire, ma lo trovo molto utile per capire quante sovrastrutture abbiamo in testa) è questo:
[...] if you criticize X in women but do not criticize X in men, then you do not have a problem with X, you have a problem with women.
Chimamanda Ngozi Adichie - "Dear Ijeawele, or A Feminist Manifesto in Fifteen Suggestions"

Ps: Alla fine di un seminario oggi lo speaker ha voluto aggiungere un riferimento alla Giornata Internazionale delle Donne. Ha concluso dicendo una cosa del tipo "[...] perché voi donne portate la primavera.". E niente, capisco perfettamente le sue buone intenzioni, ma io sono riuscita a pensare solo ai cambiamenti d'aria dopo una cena al messicano. Perché anche noi donne facciamo le puzze.

martedì 6 marzo 2018

Caffè.

Ho smesso di bere caffè.

Ho smesso di bere caffè quando sono da sola.

Il mio rapporto col caffè è sempre andato un po' a fasi: non ne ho bevuto fino ai 17 anni. Della serie che non mi piaceva il tiramisù per via del gusto del caffè. Poi siamo andati in gita con la scuola, qualcuno ha avuto la brillante idea di vedere chi sarebbe riuscito a non dormire per più tempo: chissà perché sembrava così importante non dormire, soprattutto considerando che non è che il tempo speso svegli fosse poi di gran qualità, una volta che il sonno cominciava a farsi largo e a spegnere i cervelli.
Durante quella mattinata ne presi quattro, di caffè. È cominciata così.

Dall'università in poi le mie giornate sono sempre cominciate con almeno un caffè doppio: macchinetta da due se da sola, mezza da quattro se Madre era nei paraggi. Caffè post pranzo immancabile al Bar Rosso dell'università: anni e anni di caffè lì e quasi mai non bruciato. Era però una tradizione (oltre che comodità e spilorceria, quello dell'altro bar costava di più), e poi ad un certo punto ci hanno fregato quando hanno cominciato a preparare la cremina, e allora sotto poteva esserci anche acqua sporca. Ci hanno fidelizzato con la cremina, non c'è stato più un punto di ritorno.
Che nel pomeriggio ci fossero lezioni o sessioni di studio, c'era il caffè delle quattro (circa).
Durante la sessione d'esami, c'era il caffè delle qualunque: in giornate particolarmente intense arrivavo tranquillamente a sei/sette. Ringraziamo la brachicardia di base, o non sarei forse qui a scriverne. Ci serviva davvero il caffè? Forse no, ma era un buon modo per prendersi una pausa senza sentirsi in colpa, aggiornarsi sulla vita tra un teorema e l'altro e costruire cose. Su alcuni di quei caffè ci abbiamo eretto torri che poi sono diventati castelli, su altri non restano che pallidi tentativi in muratura ma, ehi!, nessuno nasce carpentiere.

Poi Namur. Uno dei primi acquisti è stata ovviamente la Moka, per la mattina. E quel profumo di caffè vero dava sempre l'idea di essere un po' più vicina a casa (cliché, che vi devo dire).
Il caffè disponibile all'università fa del suo meglio, ma non ha niente a che vedere col sapore che ti aspetteresti: gli ho dato qualche chance, ma dopo una tazza particolarmente orrida ho lasciato perdere. Addio caffè durante la giornata.
E poi non so bene cos'è successo. Poco a poco una macchinetta intera è sembrata troppo. Forse una mattina ho finito il caffè, e la mattina dopo non è sembrato un dramma non averne. Forse una volta il mio stomaco ha chiesto una pausa, forse ho cominciato a scordarmi il caffè lasciato a raffreddare troppe volte di seguito.
E ho scoperto di non averne fisicamente bisogno: sopravvivo lo stesso, sono sveglia lo stesso. Sarà che forse non ho più così bisogno di sentirmi un po' più vicina a casa. E poi, oh, adesso quando ne prendo un po' mi fa davvero effetto*.

Ora il caffè è per occasioni speciali.
È per i weekend con G., con le colazioni a letto e gli esperimenti in cucina.
È per quando sono a casa dai miei, quando la mattina trovo la macchinetta pronta per esser messa sul fornello preparata amorevolmente da Madre. Che poi ne prende sempre un goccio.
È per quando passo a trovare le mie sorelle e cognati e nipoti, qualunque sia il Paese in cui questo avviene.
È per quando torno all'università a Roma a lavorare, e che pranzo sarebbe senza caffè? (Il bar è lo stesso, i baristi no, il bruciato è rimasto.)
È per quando recupero il tempo con gli amici in Italia, dopo una lauta mangiata o prima di uscire la sera, ché l'età avanza e senza caffè a mezzanotte uno ha voglia di fare le nanne. E quei caffè non hanno perso l'aggiornarsi sulla vita, il riaffermare che siamo qui, ancora, aspetta che aggiungiamo un altro piano alla torre est.

Ora il caffè è per occasioni speciali, e non vedo l'ora di sentirne il gorgoglio.




* Si annoverano nella lista di occasioni con aggiunta di caffeina anche quelle rare volte in cui dormo una manciata di ore.