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lunedì 15 febbraio 2016

I do not speak French


Ve l'avevo promesso, ed eccola qui: casistica dei belgi che incontrano una non-francofona.
Lasciatemi per un attimo divagare, ma sento il bisogno (morale e narrativo) di sfatare un mito: la conoscenza dell'inglese non è proporzionale ai gradi di latitudine.
Non so voi, oh miei italici lettori, ma io e i miei amici eravamo abbastanza sicuri che l'inglese sarebbe stata un'ottima ancora di salvezza nel primo periodo di non-francese. "Te pare? Ma poi in Belgio c'è il parlamento europeo! Bruxelles! Da paura!"
Ecco, no.

Onestamente dirò che il mio inconscio evidentemente ha ritenuto saggio non farmi cogliere degli indizi che si erano già manifestati quando, ad ottobre, ero stata qui qualche giorno per prepararmi al colloquio per la borsa di studio: receptionist dell'albergo a parte, nessuno al di fuori dell'università aveva mai dato alcun segno di parlare inglese, ma non essendo il numero delle interazioni tale da costituire un bacino statistico, avevo lasciato perdere, mantenendo un vago, orribile sospetto in un angolino della testa all'altezza della nuca.
Sospetto che poi come un Alien mi è uscito dal collo, si è cibato della mia sorpresa/delusione ed è diventato il mio miglior amico immaginario.

Se parliamo della mera sopravvivenza, in realtà, parlare la lingua locale non è strettamente necessario: una volta che si ha pieno possesso di alcune parole chiave (grazie buongiorno buonasera), indispensabili per non sembrare una sociopatica squilibrata e non farsi rinchiudere in qualche istituto, si sopravvive.
Riempi il carrello o il cestino delle cose che ti servono, porti alla cassa, parola chiave + sorriso ebete, paghi (importantissimo pagare, ché dare spiegazioni non lo sappiamo ancora fare!) e via.

Ma! Ma...
Ma la vita non è solo mera sopravvivenza, alle volte per soddisfare dei bisogni non primari ma necessari è indispensabile relazionarsi col prossimo utilizzando costruzioni linguistiche degne almeno dell'Homo Sapiens. O possono avvenire degli imprevisti, che in qualche modo si dovranno pure affrontare. E qua casca l'asino.
Ih-oh.

Ingenuamente, forte della mia buona conoscenza d'oltremanica, di solito esclamo:

"I don't speak French!"


...

Pupille dilatate, bocca semi-aperta, irrigidimento muscolare: queste le involontarie e imprescindibili reazioni di chiunque. Dopo il primo attimo di panico, gli astanti si ripartiscono in tre categorie.

Misericordiosi: "Non so l'inglese, ma stai messa peggio tu"
Qualche raro esempio di pietà: cogliendo la situazione, con un enorme sforzo di memoria i misericordiosi ricordano le traduzioni in inglese di quelle due o tre parole base necessarie a ricostruire il concetto che vogliono esprimere. Le dicono lentamente, senza verbi, congiunzioni o soggetti, ma chi sono io per giudicare? Quasi coi lacrimoni di commozione, resisto all'urgenza di abbracciarli sentitamente, rispondo qualcosa di adeguato e via, anche stavolta è andata.


Professionali: "E' 'n' po' 'n problema tuo, ma io c'ho comunque la pagnotta da guadagnà"

Compresa la situazione che ha davanti, il professionale decide che la barriera linguistica non lo/la fermerà dal guadagnarsi lo stipendio: così la ignora, e continua tranquillamente a parlare in francese.
Alla stessa velocità.
E non gesticola.
A questo punto una si trova costretta a sguinzagliare tutte le proprie abilità: l'udito per percepire qualche mezza parola nota; la vista per individuare se l'interlocutore, in un momento di poco controllo, magari volta lo sguardo verso un punto che potrebbe essere d'interesse per la questione in gioco; il controllo muscolare per tenere la bocca fissa in un sorriso ebete e non farla dirottare drasticamente in un'espressione sarcastica
"Seriously?"
(Impariamo così che Kristen Stewart ha almeno due espressioni in repertorio.)
WTF: "Se non parlo non mi ved... parl... Vabbè, non mi."
La mia categoria preferita (colta l'ironia?): non appena percepiscono il problema linguistico, i WTF si ammutoliscono. Restano al loro posto perché di solito stanno lavorando e non posso semplicemente andarsene, ma fossero liberi da qualunque obbligo scapperebbero alla Bolt senza mai guardarsi indietro. Non potendolo fare, distruggono qualsiasi contatto visivo, sveltiscono i movimenti per accorciare il più possibile quell'agonia e si ammutoliscono: non proferiscono neanche una parola. Neanche in francese.
A quel punto ogni interazione cessa di esistere, manco fossi un abominevole uomo delle nevi.
Non sono matta, G. ha assistito ad un episodio simile: addirittura in quel caso, rea di aver chiesto "two espressos, please", sono stata guardata in cagnesco e i miei soldi sono stati accolti come se fossero stati avvolti da pestilenza pura. I WTF non sono così diffusi, ma colpiscono per la loro assolutezza e l'imprevedibilità. Sono i T-Rex del confronto linguistico, praticamente.


Potrei concludere qui, "ah ah ah, ma che divertimento", "oh oh oh, poraccia"; invece, per dovere di cronaca, sento di dover aggiungere una nota: i Belgi sono cordiali e sempre molto disponibili. Superato lo scontro iniziale, studiando le reazioni (e, devo ammettere, all'aumentare degli avvistamenti dei misericordiosi), mi sono convinta del fatto che non è cattiveria: si sentono in difetto. I Valloni (belgi francesi) sono assolutamente consci di non sapere l'inglese, e non lo dicono scherzandoci su: iniziando una conversazione in inglese si sottolinea, più che la propria, la loro mancanza, e questo, varrebbe per tutti, crea del disagio.
Una volta capito questo punto, ho preso l'abitudine di cominciare con una semplice frase in francese, del tipo "Je suis desolée, mon francais est terrible", o cose del genere: l'intenzione è "sto per metterti in difficoltà, mi dispiace, ma guarda che anche io non è che stia messa molto meglio".
E vi dirò, nella maggior parte dei casi fa la differenza.
Forse alcune cose si capiscono anche parlando due lingue diverse.


Ps: Invece quella dei caffè era proprio str****.

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